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Giulio Senes, docente ed esperto di healing gardens: “Progettare spazi verdi per migliorare il benessere delle persone è possibile, grazie all’evidence-based design”

Giulio Senes, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali (DiSAA) della Statale di Milano, è uno dei massimi esperti italiani di healing gardens. Milanese, presidente della European Greenways Association, Senes si occupa da anni di pianificazione del territorio verde, ma anche e soprattutto di progettazione delle aree verdi, occupandosi molto del tema delle green ways, cioè i percorsi verdi, in particolare per la ricreazione e il turismo (nonché per la mobilità casa-lavoro, a piedi ma anche in bici, a cavallo e così via).

Benessere è una delle parole del vocabolario dello studioso. Non è una coincidenza, considerando la grandissima esperienza di Senes negli healing gardens, e nel ruolo che ha il contatto con la natura per la salute dell’essere umano, non solo nei luoghi di cura, ma in generale negli spazi outdoor. Nel corso di questa conversazione lo studioso ha affrontato con noi alcuni temi fondamentali, come il nesso tra benessere e guarigione, la progettazione con un focus sulla qualità della vita, l’importanza del verde, della luce, di una corretta ventilazione nei luoghi di cura, di vita e di lavoro. Buona lettura!

Potrebbe darci una definizione di healing garden?

A me piace molto una nostra definizione, che deriva da quella elaborata da una collega americana, Naomi Sacks. Si tratta di uno spazio verde appositamente progettato per migliorare il benessere delle persone che lo frequentano. Infatti la ricerca scientifica ha ormai dimostrato che il contatto con la natura fa bene, è parte della cosiddetta biofilia. Ma se è vero che il verde fa bene, un verde progettato appositamente per fare bene… fa ancora meglio! E del resto progettazione vuole dire amplificare l’effetto positivo del verde. Noi ci rifacciamo a un metodo di progettazione che si chiama evidence-based design: un approccio sviluppato negli Stati Uniti, dal Center for Health Design, il cui utilizzo è obbligatorio per i luoghi di cura.

Se per esempio si vuole progettare un ospedale, ogni scelta progettuale deve derivare dall’evidenza scientifica, inclusa la scelta dei materiali, dei colori, dell’illuminazione. Si deve progettare in modo da generare benefici sia per i pazienti che per il personale dell’ospedale. E lo stesso facciamo noi quando progettiamo questi giardini, questi healing gardens: operiamo in base all’evidenza scientifica, attuiamo l’evidence-based design.

Uno sciorcio del giardino della psichiatria dell’Ospedale Ferrero di Verduno

Ci può fare un caso concreto?

Certo. Di recente abbiamo progettato e realizzato il giardino della psichiatria dell’Ospedale Ferrero di Verduno, vicino ad Alba. Siamo partiti da cosa dice la ricerca scientifica rispetto a come devono essere gli spazi di un reparto psichiatrico. Abbiamo già ricevuto feedback molto positivi sia da parte del personale che da parte del primario. I pazienti sono rimasti sorpresi dal fatto che qualcuno abbia pensato a loro durante la realizzazione del giardino. Per me e i colleghi, ovviamente, ciò è fonte di grande soddisfazione.

Si è passati da un approccio basato sulla cura della malattia a uno che mira alla cura della persona. Occorre ciò mettere la persona al centro.

Esatto. La cura della persona è implicita nel concetto di cura. E del resto la stessa parola “ospedale” è collegata al concetto di hospitalitas, cioè accogliere i malati, i viandanti, i poveri, cioè le persone che più hanno bisogno. Ovviamente nei secoli la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi, e si è verificato un processo quasi esasperato di specializzazione in ambito medico. Ciò si è tradotto in reali benefici per la collettività, per esempio c’è stato un allungamento della vita media, però si è persa l’attenzione per la persona nel suo insieme. Perché la salute non è solo assenza di malattia, ma uno stato complessivo di benessere fisico, mentale, spirituale e sociale (secondo la stessa definizione di salute dell’OMS). E se si accetta questa concezione della salute, legata a al benessere, allora è ovvio che si deve guardare alla persona nella sua totalità. In inglese questa evoluzione dell’approccio alla cura è detto “from bodies to lives”, e segna il passaggio dal vedere il paziente come una sorta di oggetto da curare, alla stregua – mi permetta –  di un’automobile da riparare, al vederlo come un essere umano, una persona che vive. Ovviamente così tutto diventa molto più complesso.

Tavola sulla vegetazione nel giardino della psichiatria dell’Ospedale Ferrero

Quindi è importante umanizzare gli spazi di cura.

Sì, ma l’utilizzo stesso di questa parola è emblematico, mostra il paradosso in cui ci troviamo. Voglio dire, si deve umanizzare un posto solo quando esso non è per gli esseri umani. Se ora ci sono progetti europei per “umanizzare gli ospedali”, sorge il dubbio che gli ospedali non fossero stati pensati per gli esseri umani!

Qualche anno fa ci fu un gran dibattito qui in Italia; si osservò che un tempo i medici, oltre alle discipline scientifiche, studiavano anche la filosofia, persino la letteratura. Oggi non è più così. Lei cosa ne pensa? I medici dovrebbero tornare a occuparsi anche di filosofia, letteratura e così via?

Sì, sono completamente d’accordo. Pensi che nel corso di laurea in progettazione del verde è anni che faccio tenere sempre dei seminari di psicologia ambientale, perché cerco di far capire ai miei studenti che loro progettano per gli esseri umani. E se si vuole progettare per gli esseri umani, bisogna capire come funzionano gli esseri umani. E questo vale pure per i medici. Penso sia essenziale, ad esempio, che un chirurgo della mano abbia qualche nozione di psicologia per comprendere che il paziente è qualcosa di più complesso delle sue mani. Ovviamente alcuni hanno doti naturali di empatia, altri no, ma il rapporto umano con i pazienti è fondamentale. Per fortuna si sta andando sempre di più in questa direzione. Le ultime ricerche hanno dimostrato che il rapporto umano con il paziente è cruciale nel processo di cura; la capacità del medico di “ingaggiare” il paziente è importantissima per avere delle risposte molto più rapide ed efficaci.

Voglio aggiungere un’altra cosa. Io e i colleghi, nella nostra veste di specialisti degli healing gardens, abbiamo iniziato a fare progetti per gli staff, cioè per i medici e gli infermieri. Perché si è visto che molto del distacco che certi medici mostrano nei confronti dei pazienti, e che i pazienti interpretano come “freddezza” o addirittura “disinteresse”, è dovuto agli effetti, più o meno palesi, del cosiddetto burnout, cioè lo stress patologico causato da una professione impegnativa come quella sanitaria. Uno stress dovuto allo stare a contatto ogni giorno con la malattia e con la sofferenza, al misurarsi con l’incapacità di salvare sempre le persone, di riuscire ad alleviare ogni volta la sofferenza, di rispondere in modo adeguato ai bisogni di tutti. Ci sono studi molto interessanti che dimostrano che cinque minuti ogni ora o ogni due ore passati nel verde aiutano in modo rilevante a prevenire il burnout nel personale sanitario.

Foto da radioterapia dell’Ospedale Ferrero di Verduno

Com’è l’healing garden tipo?

Non esiste. Ogni healing garden è funzionale a un dato reparto ospedaliero, e ogni reparto ospedaliero è diverso dagli altri (fermo restando che gli healing gardens non si progettano solo per gli ospedali). Noi dobbiamo essere in grado di progettare uno spazio specifico per un reparto specifico. Per farlo ricorriamo all’evidence-based design, ma anche al co-design, cioè al design partecipativo. In estrema sintesi, iniziamo a incontrare il personale, ed esso ci parla dei pazienti e dei loro familiari; talvolta parliamo anche con i pazienti e le loro famiglie, alcune volte questo non è possibile. Questa modalità partecipativa consente di tarare il progetto sulle attese, le esigenze reali, le prassi di uno specifico reparto, in un luogo definito, per una certa malattia. Un conto è fare un giardino per la psichiatria, un altro è farlo per la pediatria, un altro ancora è farlo per l’oncologia. Ci avvaliamo spesso dell’effetto di distrazione positiva, collegato al fatto che parte della sofferenza di un malato è dovuta alla costante focalizzazione sulla propria malattia, sulla propria sofferenza, non ci si riesce a distrarre; la natura, con la sua vitalità – in particolare con i suoi colori –, distrae la mente e consente al paziente di ridurre lo stress, guarire più in fretta, avere più fiducia ecc.

Le piante possono avere effetti incredibilmente benefici su di noi, in UpSens ne siamo convinti.

Certo. Però ci sono degli ambienti dove certi colori, o l’eccesso di colori e profumi, vanno evitati. Per esempio la ricerca scientifica ha dimostrato che alcuni odori, che per molti sono piacevoli, sono invece molto sgradevoli per i malati di tumore che stanno concludendo dei cicli di chemioterapia o radioterapia. Infatti una delle linee guida nella progettazione di giardini per i reparti di oncologia – ora ne stiamo progettando uno per l’ospedale di Verduno – prevede di evitare l’eccesso di colori e odori, e di scegliere le specie vegetali di conseguenza.

In estrema sintesi, la capacità del progettista consiste nel realizzare l’obiettivo del contatto con la natura, attraverso tutti e cinque i sensi, ma adattandolo agli specifici bisogni delle persone che usufruiranno del tale spazio. Per il reparto di oncologia dell’ospedale di Verduno che le citavo un attimo fa, per esempio, noi realizzeremo due terrazzi: uno per i pazienti e uno per lo staff, perché lo staff ha bisogno di cose diverse rispetto ai pazienti. E tutto questo nasce dal già menzionato approccio evidence-based.

Quali sono degli esempi particolarmente degni di nota all’estero?

In Norvegia c’è l’Outdoor Care Retreat, una sorta di ritiro all’aperto. Potremmo parlare di bungalow, tutti in legno, immersi nei boschi accanto all’ospedale. Sono parte dell’ospedale ma non di un reparto in particolare. Sono luoghi dove malati e familiari dei malati possono ritirarsi per un giorno, dipende dal tipo di malattia ovviamente. È un modo per rafforzare il contatto con la natura. E penso che sia molto bello che l’ospedale non offra solo un reparto con tutto il necessario per fornire delle buone cure, ma anche uno spazio dove stare bene, o quantomeno dove provare a riassaporare un certo tipo di benessere. C’è un’esperienza analoga in Inghilterra, una catena di rifugi per i malati oncologici; si tratta di un’iniziativa avviata da un architetto del paesaggio la cui moglie è morta di tumore.

Gli healing gardens generano una molteplicità di benefici: la riduzione dello stress nei pazienti, nei familiari e nello staff, un miglioramento dell’autonomia e della qualità della vita sempre tra i pazienti, persino una riduzione dei costi delle cure. Convengono, insomma.

Quello a cui lei fa riferimento è il primo studio, che rese possibile poi l’healing space design, e il concetto di healing gardens; fu fatto da Roger Ulrich, che nel 1984 lo pubblicò sulla prestigiosa rivista Science. Lo scienziato – all’epoca si potevano fare queste cose – andò a guardare le cartelle cliniche dei pazienti operati alla cistifellea nel corso di dieci anni. E riscontrò che c’era una correlazione statisticamente significativa tra i minori tempi di cura, il minor uso di medicine, e il minor numero di chiamate per lamentarsi con infermieri nei pazienti ricoverati in stanze che si affacciavano sull’albero che si trovava in strada, rispetto a quelli ricoverati nelle stanze che davano su un altro edificio. Fu lui, con tale studio, ad aprire le porte a questo tipo di ricerca.

E in Italia ci può citare qualche esempio concreto?

Parliamo per esempio del nuovo ospedale Alba-Bra, situato a Verduno, a metà strada tra Alba e Bra. È un ospedale con una storia molto complicata, era nato con l’idea di unire i due ospedali di Alba e Bra, e negli ultimi anni per realizzarlo si è mosso il territorio, creando un’apposita fondazione privata dove tutti gli imprenditori di un certo livello della zona si sono riuniti per supportarne il finanziamento di tasca loro. Di fatto l’unica mission di questa fondazione è aiutare l’ospedale, che è pubblico; per esempio hanno convinto la famiglia Ferrero a donare fondi per gli healing gardens di cui la struttura è munita.  

Foto dal San Carlo Borromeo di Milano

Sinora abbiamo parlato dell’importanza del verde, degli spazi outdoor. Ma contano anche gli spazi indoor, per il benessere e la qualità della vita.

Certo, anche gli spazi indoor contano, e lo vediamo tutti i giorni nelle nostre case. Certo, negli spazi indoor le limitazioni sono maggiori, ad esempio le specie vegetali che possono stare bene indoor sono meno numerose, ma si può fare senz’altro molto. Del resto ciascuno di noi trascorre gran parte del suo tempo in spazi indoor, come l’ufficio o la propria abitazione.

Può essere utile un approccio olistico tra esterni e interni, magari dando anche più spazio alla luce e all’areazione?

Assolutamente. Una buona ventilazione è fondamentale. E lo è anche l’aspetto della luminosità. In Italia c’è una legge abbastanza interessante che garantisce rapporti aeroilluminanti abbastanza buoni, pertanto già adesso chi fa un edificio, sia esso residenziale od ospedaliero, deve rispettare una serie di norme che consentono di fare entrare la luce naturale in modo significativo. Sull’apertura delle finestre è in atto un cambiamento, su questo noi italiani siamo un po’ indietro. Qualche anno fa venne in visita un collega canadese che si occupa di healing gardens in Canada e lo portai all’ospedale San Carlo Borromeo. L’edificio è un po’ vecchiotto e quindi tutte le sue finestre si aprono. E lui ne rimase positivamente colpito! Mi raccontò che negli Stati Uniti stanno tornando alle finestre apribili, mentre prima costruivano questi edifici completamente chiusi, ermetici, sempre condizionati, sia in inverno che in estate. Invece il contatto con l’aria esterna, disporre di una buona ventilazione, è fondamentale, senza dubbio. Vale per gli ospedali, ma credo dovrebbe valere per ogni struttura e abitazione, anche per un ufficio, un open space aziendale. Un altro aspetto rilevante sono i colori, i materiali. Occorre un approccio olistico che prenda davvero in considerazione tutto l’ambiente: da come è organizzato uno spazio agli arredi, alle pavimentazioni, ai colori, alla luce, alla ventilazione, e alle piante ovviamente.

Un esempio dall’estero: il rooftop verde del Boston Children’s Hospital

Mi ha colpito che a Verduno avete sviluppato anche degli spazi per l’orticoltura…

Sì, assolutamente. Il rapporto con la natura ha diversi gradi, si va dalla dimensione della passività (ciò che gli inglesi chiamano just be in the garden) sino al rapporto attivo, e il massimo del rapporto attivo tra natura ed essere umano è ciò che chiamano working with the garden. Quindi il gardening diventa qualcosa che permette all’essere umano di essere così coinvolto dalla natura, dal lavorare con essa. Con la terra, con l’acqua, con l’aria e così via. E da qui nasce il concetto della horticultural therapy, cioè una terapia basata sugli effetti benefici del giardinaggio. Sa, nei paesi anglosassoni si tratta di una professione vera e propria, c’è un corso di laurea in horticultural therapy. In Italia non è così, però in Lombardia una legge regionale ha stabilito, finalmente, dei percorsi di ortoterapia; non si tratta di corsi di laurea, ma ci sono delle scuole professionali che stanno cominciano a formare i primi professionisti.

Ci sono già le prime esperienze, comunque. Per esempio io e i colleghi abbiamo lavorato con un gruppo di bambini autistici a Pavia, in una struttura privata chiamata Dosso Verde; abbiamo creato un protocollo medico in collaborazione con un neuropsichiatra infantile e abbiamo misurato i benefici della riduzione del livello di stress analizzando il cortisolo salivare. Abbiamo notato che l’ortoterapia generava una riduzione dello stress nei bambini, il dato era statisticamente rilevante.

E sul mondo del lavoro che ci dice professore?

La natura è fondamentale. La luce, l’aria, il verde. Non a caso colossi come Google o Apple hanno costruito i loro nuovi quartieri generali immersi nella natura. L’attention restoration theory lo prova: il contatto con la natura riattiva la capacità attentiva. E questo vale specialmente per certi tipi di lavori, ad esempio quelli creativi, manageriali ecc. Il biophilic design passa attraverso l’introduzione nei luoghi di lavoro di elementi naturali. C’è molto da fare, e secondo me questo è un settore in cui imprenditori all’avanguardia possono veramente investire un po’, perché si tratta di far star meglio i dipendenti ma con benefici, in termini di produttività e creatività, importanti.

Le foto del presente post sono state gentilmente fornite dal professor Senes. Per leggere altri post del blog di UpSens, si clicchi qui.


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